http://www.dialogopsicologia.it Risposte: 1 Penso che alla base della risposta di questa domanda vi sia la necessità di problematizzare due importanti pre-giudizi. Il primo pregiudizio riguarda la famosa dicotomia mente – (trattino) corpo. La cultura medica di stampo cartesiano (fondata sulla divisione mente corpo), l’idea ingenua ben radicata nella cultura di una netta divisibilità tra problema del corpo e problema della mente, la difficoltà a considerare il disturbo o la malattia come problema della persona, una scarsa attenzione iniziale data dalla scienza ai disturbi della mente, relegati in ambito filosofico e religioso (mentre la medicina, seguendo le scienze naturali, progrediva nello studio del corpo) hanno generato e consolidato l’idea che oggi abbiamo della persona e del suo male. “È una cosa organica” o “è una cosa psicologica”, con tutti i movimenti, pensieri e considerazioni che questa divisione di base genera nella mente e nel comportamento di chi affronta la questione. Già Freud aveva intuito l’indivisibilità del “mentecorpo”, sviluppando un’idea monistica della persona come totalità in equilibrio in tutte le sue componenti. Dall’istinto, l’energia rintracciabile nella corporeità, si organizza la pulsione, che è il rappresentate psichico degli istinti, pulsione che si esprime come affetti e come rappresentazioni, e seguendo un piano evolutivo sano e strutturato, giungono alla formazione del pensiero, alla possibilità cioè di strutturare un apparato per pensare, poi simbolizzare, (ovverosia mentalizzare) gli aspetti e i contenuti più inesprimibili, importanti e costitutivi lo sviluppo della persona. In questa evoluzione: istinto – pulsione – affetto – pensiero, (nonostante le enormi critiche che la teoria freudiana ha ricevuto rispetto al termine e al concetto di pulsione) si evidenzia l’inizio di una coscienza importante rispetto ad un corpo e ad una mente non divise, ma che si formano contemporaneamente, mescolando contenuti ed elementi che determinano un tracciato circolare dal corpo alla psiche, sempre in interazione e in relazione reciproca. La psicologia dello sviluppo sottolinea questo aspetto, cioè che lo psichico del bambino si articola a partire e insieme allo sviluppo del corpo, immagazzinando le esperienze corporee fino ad organizzarle in maniera più strutturata, fino a renderle parte costitutiva delle peculiarità della persona e fino a rendere pensabili questi contenuti attraverso uno sviluppo e una relazione buona con le figure di riferimento e cura e dell’ambiente all’interno del quale il bambino si sviluppa e cresce. Senza un ambiente sano, e senza qualcuno che si prenda cura di lui, il bambino non può sopravvivere e le variabili che intercorrono nello sviluppo della mente e del corpo intervengono contemporaneamente. Non esiste, dunque, una divisione tra mente e corpo, l’unica divisione operata tra queste istanze è stata di natura metodologica, inizialmente, per permettere una speculazione sul corpo preclusa dalla sacralità di cui era investito. Un metodo, questo della divisione, che attualmente non regge e i disturbi cosiddetti “psicosomatici” ne sono un’evidenza chiara, che ci obbliga a rivedere e a mettere in discussione la divisione fittizia e “astratta” tra mente e corpo. Proponiamo un esempio, com’è possibile che uno stato emotivo possa generare una evidente reazione e/o alterazione fisica? Arrabbiarsi ad esempio, può avere reazioni palesi sul sistema nervoso, muscolare, endocrino. Aumenta la sudorazione, lo stomaco duole, si sviluppa mal si testa, pertanto la rabbia, qualcosa di psichico, si radica, più di quanto pensiamo, nel corpo attraverso cui si esprime. Quando l’affettività (l’ammontare di energia dell’affetto, l’espressione qualitativa della quantità di energia pulsionale) non ha la possibilità di essere pensata, di essere rappresentata, di legarsi ad una rappresentabilità, può muoversi a livelli inferiori, scaricandosi direttamente sul corpo. Questa carica energetica, non trovando risorse e vie di accesso alla mente si dirotta sul corpo (lo sviluppo di un disturbo sul corpo è una delle vie possibili del destino di un affetto non pensabile, come e perché una persona sviluppa una malattia del corpo, oppure altro, è qualcosa ancora da chiarire in maniera definitiva). Dunque, in questo caso, l’affetto non mentalizzabile, la quota di energia mobile, non ha altra strada per esprimere la sua carica energetica, per testimoniare la sua presenza non integrata né integrabile nell’intero sistema della persona, che trasferirsi sul corpo, agendo su questo la sua carica, ammalando il corpo producendo il sintomo somatico. I sintomi psichici e quelli fisici sono entrambi “simboli” di un disequilibrio, di una crisi, di una problematicità non ancora risolta. Il secondo pregiudizio, in parte anticipato e risolto, riguarda appunto l’idea di “questione psichica” uguale “cosa astratta” (quasi ininfluente, aleatoria, insomma non corporea, intangibile, presente nell’esperienza ma in maniera opzionale e marginale). Seguendo il passaggio descritto prima, lo psichico non può essere considerato qualcosa di inconsistente bensì di radicato nel corpo come nell’esperienza della persona, quindi influente sui suoi equilibri interni, esterni, influente rispetto alle relazioni, in un circolo complesso di variabili reciprocamente in rapporto tra loro. Nuove idee per vecchie malattie oggi vengono ad articolarsi osservando queste da un vertice più complesso e globale, approfondendo le nuove ricerche della psiconeuroimmunologia ad esempio, dell’epigenetica (attenta a considerare la modificazione genomica a partire dall’esperienza del rapporto ambientale) complessificando l’idea di persona e della sua sofferenza. Sarebbe complesso dilungarsi oltre su questi aspetti, pertanto, suggerisco un testo ricco e chiaro, ripromettendoci di ampliare questa curiosità con altri contributi:
Dott. Luigi Antonio Perrotta |
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